INTERVISTE



Intervista a Marco Betta: respirare la musica, ad ogni età
Lunedì 03 dicembre 2012 - Marco, tu sei stato direttore artistico del Teatro Massimo di Palermo. Un bilancio di quell’esperienza? Una via futura per le Fondazioni Liriche in Italia?
Sono stato direttore artistico del Tetro Massimo di Palermo dal 1994 al 2002 in un periodo molto difficile perché nel ’94 il Teatro era chiuso (riaprì nel ’97). Mi trovavo quindi nella condizione di essere il direttore artistico di un Teatro senza il Teatro, che in realtà è una delle condizioni più difficili perché nel mio caso si trattava anche di cercare (insieme allo staff, al Sovrintendente e a tutte le maestranze), di ricucire una ferita all’interno del sistema culturale cittadino. Un Teatro che rimane chiuso per 24 anni diventa una sorta di ferita. Da questo punto di vista sono stati degli anni meravigliosi perché in qualche modo credo di avere contribuito e collaborato non solo alla riapertura del Teatro Massimo ma anche al tentativo di ripristinare un sistema culturale della città e creare una sorta di nuova partenza, di numero zero possibile. Dall’altro lato sono stati anche degli anni molto difficili perché gestire una Fondazione Lirica è complesso nella misura in cui sono presenti maestranze tra le più diverse, che hanno un’identità molto particolare. Non è facile mettere d’accordo i tecnici con i sarti, con gli artisti del coro, con i professori d’orchestra: il teatro è una sorta di grande miracolo, di grande fucina in cui si mettono insieme le cose più diverse. Non solo la musica diventa sorella delle altre arti (come la scenografia, la scenotecnica, la recitazione nell’opera lirica), ma c’è anche il bisogno di mettere insieme tutte queste maestranze per raggiungere un obiettivo comune. La difficoltà era anche data dal fatto che un teatro chiuso per 24 anni lascia un senso di stanchezza, di spossatezza mentale. Costruire degli obiettivi culturali partendo da un teatro che non c’è, è stato per me molto difficile ma anche entusiasmante: da questo punto di vista ritengo che il bilancio sia stato positivo. Abbiamo lavorato benissimo, sia con il sovrintendente Attilio Orlando che purtroppo non c’è più, sia con Francesco Giambrone, e qui mi riallaccio alla seconda parte della tua domanda: vorrei prima parlare del futuro culturale delle Fondazioni Liriche. Con tutti e due i sovrintendenti elaborammo la teoria che la stagione lirica di un teatro è da un lato un percorso parziale all’interno della storia della musica occidentale (non si possono mettere più di 10-11 titoli a stagione), ma dall’altro la nostra idea era lavorare sulla memoria dell’opera, non solo legata alle opere di rara esecuzione ma soprattutto ripristinare quello che era la grande memoria dell’opera del ‘900. Abbiamo realizzato opere come Wozzeck, Il castello di Barbablù fino ad arrivare al Moses und Aaron in forma scenica passando per la Lulu ma anche per Angelique di Jaques Ibert, e lasciando spazio alle opere contemporanee di compositori come Francesco la Licata, Giovanni Damiani, Carlo Boccadoro, Filippo del Corno, a sezioni di musica da camera ma anche a un ciclo su Monteverdi in collaborazione con Daniele Ficola. Cercavamo di creare degli excursus che potessero passare attraverso vari periodi, ma soprattutto il principio fondamentale per la rinascita culturale dei teatri è di praticare l’opera moderna e contemporanea. L’opera contemporanea, però, può avere un senso solo se riemerge la memoria dell’opera del ‘900, altrimenti si crea una frattura di epoche, si arriva a passare dalla fine dell’800 a oggi con uno iato troppo grande: per un popolo è un po’ come dimenticare il proprio passato prossimo. Non può esistere solo il passato remoto senza passare attraverso la grande eredità che il ‘900 ci ha lasciato. La rinascita culturale dei teatri dovrà fare i conti con la memoria culturale del ‘900 che oramai si allontana da noi con un lungo abbraccio. Sempre di più ci rendiamo conto che in questo lungo abbraccio il ‘900 ci ha lasciato un testamento enorme: non solo le grandi opere, ma anche l’operetta, il musical, le opere di Kurt Weill, le opere di Shostakovich, le opere di Ferruccio Busoni, le opere da Luciano Berio fino ai nostri giorni. Penso che la rinascita delle fondazioni liriche dovrebbe partire da una riflessione culturale e non solo da una riflessione economica, perché la riflessione economica è sicuramente corretta, ma in primo luogo i Teatri sono luoghi di cultura.
Oltre che compositore e direttore artistico, sei anche docente al Conservatorio di Palermo e all’Università LUISS di Roma. Come docente ai Master Creativi LUISS, mi ha colpito la tua capacità di coinvolgere in modo efficace lo studente e di fornirgli nel più breve tempo gli strumenti tecnici per intraprendere un percorso professionale. Di cosa avrebbe bisogno il sistema di formazione Italiano per essere più competitivo e più vicino al mercato del lavoro?
L’Italia ha dato alla cultura e alla musica dell’occidente veramente tantissimo, da Monteverdi a Berio, Sciarrino eccetera, passando per i grandi operisti: Verdi, Puccini, Rossini, Donizetti… Io credo che la formazione in Italia (anche se è un po’ una banalità e ormai lo sanno tutti) dovrebbe iniziare fin dalla scuola elementare. E’ questa la base per far diventare la musica un luogo abitato con costanza e con frequenza dal popolo Italiano. Questo dovrebbe essere secondo me il primo passo, perché tenere la musica lontana dalla formazione generale significa creare una distanza anche nel campo della formazione specifica della quale tu parlavi, si rischia di arrivare alla formazione specifica con troppe lacune di base. La musica diventa così un pianeta molto distante che poi si avvicina di colpo nella vita degli artisti, un po’ come se fosse un’illuminazione, una sorta di designazione. Io invece renderei la fruizione della musica più naturale, inserendola nella formazione scolastica di tutti i cittadini: ritengo che la musica contribuisca al progresso della civiltà di un popolo, sono convinto che la musica (come tutte le arti) contribuisca alla crescita della società e della cultura. Partendo da questa impostazione, penso che la crescita professionale e la possibilità di entrare in un mondo del lavoro che abbia più apertura nei confronti dei giovani ma anche di tutti gli artisti, sia poi una condizione più favorevole e più semplice da ottenere. E’ chiaro che se non si studia la musica nemmeno al liceo classico e se non si ha un’infarinatura di base, è poi difficile chiedere alla società di dare più spazio alla musica. La musica dovrebbe essere nel nostro paese non solo una meravigliosa arte ma anche un bene culturale. Uso il termine bene culturale intendendo dire che noi proteggiamo i vasi greci del V secolo, proteggiamo le partiture di Verdi, ma non la musica di Verdi in senso assoluto, invece la musica è un bene culturale dello Stato. Se quest’idea dovesse radicarsi veramente all’interno della società, tutto sarebbe più semplice, anche dal punto di vista della formazione specifica, perché a quel punto si avrebbero molte più possibilità di “risuonare” in simbiosi con una società che già conosce qual è il respiro della musica. E’ un problema di respirazione, se la società non respira musica fin dalla formazione di base è poi difficile creare spazi. La praticità che tu mi attribuisci è anche il tentativo di aiutare e di aiutarci (attraverso degli espedienti tecnici) ad accelerare i tempi, per riuscire comunque ad essere fattivi in un mondo tutto sommato un po’ sordo alle questioni della musica, non solo perché ricusa di avere a che fare con la musica, ma anche perché di musica, nella società italiana, ce n’è veramente poca.
La tua ampia vena creativa ti ha portato a cimentarti con i più diversi generi musicali, dall’Opera alla musica per film. In che modo il mestiere della musica pura e della musica per film possono arricchirsi a vicenda?
Nella mia esperienza compositiva sono sempre partito dalla questione della scrittura avvicinandola molto all’ipotesi della scrittura letteraria: mi è sempre sembrato naturale comporre un po’ come uno scrittore fa nell’elaborare una teoria possibile, in un romanzo o in un racconto. Le forme musicali sono per me delle strategie con cui colloco gli elementi in base a una narrazione invisibile e mi è sempre interessato raccontare con la musica tutto ciò che non si sente, più che ciò che si sente in prima battuta. Mi è sempre piaciuto non dico nascondere, ma celare le relazioni, i rapporti. Per questo ho sempre amato le questioni legate ai contrappunti antichi, cioè evocare i contrappunti invisibili rispetto a quelli udibili. In entrambi i casi quindi, la questione della narratività diventa per me una sorta di declinazione naturale applicata alla visione dell’arte. Non parlo di narratività onomatopeica, cioè descrizione attraverso la musica di stati emotivi visibili, ma parlo proprio del narrare, del narrare come del respirare, quindi di una sequenza di arsi e tesi degli eventi che è un po’ l’arsi e tesi che governa il respiro. Questa cosa cerco di farla sia nella musica pura, dove è più facile nascondere gli oggetti e la narrazione, ma anche nella musica applicata. Lì, la sceneggiatura primaria (che poi è quella che guida la teoria della narrazione nel film), in qualche modo asseconda la mia teoria del comporre. C’è quindi sicuramente un piano visibile dove la teoria della musica diventa appunto sorella delle altre arti (che nel film trovano il luogo della propria coesistenza), ma è sempre uno spirito di narrazione quello che mi guida. E’ chiaro che nella musica applicata sei legato a delle condizioni diverse rispetto alla musica pura, ma il principio della respirazione per me rimane uguale.
Che consiglio daresti ai giovani che vogliono intraprendere la difficile carriera della musica in un paese come l’Italia?
Per me è sempre difficilissimo dare dei consigli: dando consigli si rischia di cadere in facili asserzioni che possono essere riduttive, anche perché il momento che viviamo è veramente difficile. Esiste un livello di urgenza nell’espressione che in qualche modo mi fa dire a ogni artista, soprattutto ai compositori, che l’urgenza creativa non si può mai abbandonare e che quindi bisogna lottare a tutti i costi per difenderla. E’ pero una cosa interiore, molto teorica, corrisponde a quello che per me è una vibrazione, una simmetria rispetto a quello che secondo me è importante, rispetto a quello che io penso sulla composizione. Penso alla composizione come a una sorta di necessità, di narrazione, di urgenza e di esplicazione quindi è chiaro che da questo punto di vista non potrei non dire ai compositori e agli artisti di lottare fino alla fine per portare avanti le proprie idee. E’ chiaro che in un momento così difficile bisogna anche tenere i piedi saldamente per terra: non so come sia la situazione fuori dall’Italia perché il mio andare fuori dall’Italia non mi dà la possibilità di comprendere appieno quello che avviene negli altri paesi, di potere dare esattamente un’indicazione pratica. Devi avere una serie di elementi che a me sfuggono e quindi tento di essere corretto e di non cadere nella facile banalità dell’andare all’estero, anche perché non per tutti è possibile andare all’estero, bisogna spesso fare i conti con quello che si ha qui. …quindi la frase “Andate all’estero” non la dici… No, non la dico perché esattamente non so com’è all’estero: posso ripetere a orecchio che mi pare ci siano più possibilità, ma sarebbe appunto una ripetizione a orecchio, non sarebbe un consiglio che secondo me è corretto. Io sono uno che ha scelto di rimanere a vivere in una città molto complessa e difficile come Palermo, quindi forse non posso che consigliare quello che io ho tentato di fare. Ho tentato di lottare nella mia città, per ricucire le ferite della mia città, per ricostruire un sistema culturale dando i contributi che potevo e quindi ho cercato sempre di portare avanti le mie idee, di migliorare tutto quello che avevo attorno, facendo sempre musica ma anche attraverso l’insegnamento. Quindi, l’unico consiglio che posso dare è non solo di non cedere mai all’istinto di abbandonare la musica, ma di combattere perché la musica diventi sempre più forte nel nostro paese
Marco Betta è compositore e operatore musicale: l'intervista è di Alessandro Dolci.


Lunedì 03 dicembre 2012
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