La musica di Monteverdi dalla quale ho preso spunto proviene dai Madrigali guerrieri e amorosi, dunque dal Libro VIII dei Madrigali. Dalla prefazione del Libro VIII ho tratto anche il titolo Inventis facile est addere. Queste indicazioni, scritte proprio da Monteverdi, mi sono sembrate il suggerimento di un compito e di una sfida. Inventare aggiungendosi al lavoro altrui, variando o magari distorcendo il lavoro altrui, non è necessariamente più facile in un’epoca come la nostra, nella quale tutto lo spettro di possibilità che va dall’interpretazione al tradimento, dalla citazione alla dissimulazione, è stato ampiamente battuto e ribattuto.
Da quelle parole di Monteverdi ho voluto prendere spunto per compiere un viaggio diverso: non partire dal mio linguaggio per trasformare quello di Monteverdi, ma imparare dalla sua lingua per modificare la mia.
Vanamente, dunque, si cercherebbero qui delle citazioni: ce ne sono, si possono riconoscere volendo piccoli frammenti sparsi. L’ambito della citazione, però, non è quello in cui ho voluto portare la sfida che proveniva da Monteverdi. Dalla sua musica ho cercato semmai di riprendere la dimensione materiale e gestuale. L’aspetto performativo e teatrale, rappresentativo, prevale perciò sul gioco del reperimento di singole somiglianze.
Sin da quando ho lavorato sul Combattimento di Tancredi e Clorinda, nel 2005, avevo capito del resto che la ricerca di affinità e somiglianze non è il modo giusto per lavorare non tanto su Monteverdi, ma con lui. La musica di Monteverdi mette in gioco strategie di elusione più che di riconoscimento, di travestimento più che di identificazione, di equivoco più che di comprensione. Di qui l’idea di accogliere la funzione costruttiva da lui assegnata ai ritmi, alle dinamiche, ai timbri, e di comporre una musica il più possibile libera dal rovello mentale della profondità e dell’interiorità, esonerata dalla psicologia e dal romanticismo. Sappiamo quanto Nietzsche fosse diffidente nei confronti della profondità e raccomandasse, semmai, la superficie. Risalendo alle origini della lingua musicale moderna riconosciamo in Monteverdi un filosofo della maschera e dell’apparenza e desideriamo leggerlo con gli occhi di Nietzsche, un po’ come Borges ha voluto fare con il Don Chisciotte seguendo il lavoro immaginario di Pierre Menard. Leggendo Monteverdi in questo modo troviamo in lui, oggi, quella che Luciano Berio definiva «la complessità della semplicità». L’ornamentazione, le fioriture, la prevalenza di uno sviluppo orizzontale rispetto al dominio della verticalità, dimensione più adatta allo scavo del mondo interiore, è ciò che riflette nella composizione una convinzione insieme rinascimentale e contemporanea: quella per cui la profondità può essere un inganno. Avendo voluto lavorare sulla materia e sul gesto della musica di Monteverdi, non si troverà in questa mia nuova composizione la voce, non si troverà il canto. Solo in chiusura dall’impasto dell’orchestra emergerà un suono vocale, sia pure in maschera, cioè campionato. Una sola nota, un Re, che si estende solo su quattro battute sopra una dissolvenza incrociata degli archi subito prima che la musica si spenga nel silenzio, per evocare con quell’unica nota la memoria di una voce ridotta a gesto sonoro e non, come pure avviene nella musica di Monteverdi, a ingrediente drammatico ed espressivo. Proprio la memoria è l’altro aspetto su cui gioca una composizione basata su elementi ricorrenti, ostinati come possono esserlo alcune figure ritmiche inventate da Monteverdi e da lui donate al futuro della musica perché questa potesse aggiungervi invenzioni ulteriori, non necessariamente più facili. Intensificazioni della dinamica e del movimento si alternano, qui, a momenti di sospensione, sfere di suono più rarefatto nelle quali tutta l’agitazione precedente si disperde come in uno stato gassoso subito prima di tornare a farsi solida e di ricominciare il suo corso. Alcune anomalie timbriche incidono tagli nel tessuto sonoro come se un altro gesto, preso dall’arte figurativa del Novecento, collaborasse con le fioriture monteverdiane e fare della musica un luogo di rammemorazione e di pensiero. Compare per esempio il pianoforte. Alla fine, come si è detto, appare la voce. Ma è una voce paradossalmente assente, è l’elusione della voce più che l’aggiunta del canto. È la maschera di Monteverdi che, sotto mentite spoglie, torna a giocare con noi la strategia musicale dell’inganno.
Giorgio Battistelli