CD
De la musique
di Mirco De Stefani
Numero di catalogo discografico CRR0256, Rivoalto , Venezia 2013

Descrizione: Figure sognate
In ogni espressione artistica è interessante considerare l’intreccio di tre dinamiche oppositive: movimento e immobilità, identità e alterità, monodia e polifonia. Nei termini del linguaggio figurativo di Paul Klee, contemporaneo di Pessoa, potremmo anche parlare di punti, linee e superfici che, interagendo, definiscono il particolare tessuto, la materia di cui l’opera è fatta.
Con queste composizioni per flauto solo, realizzate nel 2004, si è tentata un’incursione nell’universo - anzi, negli universi - di Fernando Pessoa servendosi del linguaggio musicale come fonte di luce: una minima traccia luminosa attraverso il labirinto creato dal poeta portoghese per nascondere a sé e agli altri la sua stessa vita, per confondere le sue plurime impossibili esistenze.
Movimento/immobilità, identità/alterità, monodia/polifonia: ecco dunque le ambivalenti chiavi di lettura con cui accostarsi a questo incontro della musica con la parola poetica che invera la finzione. La poesia che dà il titolo alla Suite per flauto solo - De la musique - descrive l’incontro possibile/impossibile tra due figure sognate: l’immagine del poeta e di una misteriosa presenza femminile, forse personificazione della musica, che emerge a poco a poco, tra gli alberi antichi. Tracce di presenze/assenze reperibili attraverso lettere e segni irregolari che s’aprono alla meraviglia. Così Àlvaro de Campos, uno degli eteronimi (sorta di alter ego dotati di una propria personalità e biografia) creati dalla fantasia del poeta per affidare la voce dei suoi versi, una delle moltiplicazioni/divisioni di un io che si vede attraverso gli specchi deformanti della coscienza. Percezione di un sé come opera d’arte in cui, ancora una volta, rintracciamo movimento e immobilità, identità e alterità, monodia e polifonia; osserviamo un insieme di vortici in cui convergono e da cui dipartono i riflessi di architetture fatte di punti, linee e superfici a definire uno spazio-tempo aggrovigliato e rivolto a un futuro sempre postumo, irraggiungibile, racchiuso nel baule spazio-temporale della memoria. Proprio quel “baule pieno di gente” - come lo definì Antonio Tabucchi - nel quale, dopo la morte di Pessoa, furono trovati i 27.543 documenti, la maggior parte manoscritti, che costituiscono il suo lascito letterario custodito per anni.
Come può, allora, il linguaggio musicale farsi carico di tali complessità di strutture foniche e metriche, degli incroci e sovrapposizioni di significati, di sviluppi sintattici, di intrecci di narrazioni? Quale melos porgerà all’ascolto l’etereo suono del flauto, tale da attraversare incolume un oceano sinfonico di voci e personaggi, di pensieri e sensazioni? Quale forma di complessità opporranno le esili linee melodiche alle Legioni demoniache di voci frantumate e agglutinate, giunte dagli abissi esistenziali di Fernando Pessoa, alias Alberto Caeiro, alias Àlvaro de Campos, alias Ricardo Reis, alias Bernardo Soares?
Forse tra gli interstizi e le pieghe di un tessuto ipertrofico - eppure così trasparente nella sua cristallina autenticità, disteso tra voci e gridi e sospiri moltiplicati e variati nella polifonia degli stili - forse tra tutto ciò è rintracciabile un’eco che tutto pervade e attraversa, una voce che accomuna e riunisce la materia in ebollizione. Forse un suono senza parole, un melos che non sia un semplice flatus vocis, ma un nuovo logos che colleghi in altre linee e in altre superfici gli infiniti punti, gli infinitesimi suoni che accompagnano e sottendono la parola poetica.
Ecco allora delinearsi una ricerca di avvicinamento; i nove momenti della Suite, accanto al numero latino che li designa, presentano, in ordine, un titolo dal sapore prettamente musicale: Inno, Preludio, Adagio, Corrente, Fantasia, Canzone, Improvviso, Ode, Giga: termini apparentemente arbitrari o convenzionali, in realtà finzioni con cui la musica maschera il senso delle proprie espressività e ragioni d’essere, tradisce la vanità della forma nel momento in cui la esibisce ed eleva a titolo dell’opera. Il lento e progressivo concrescere della materia sonora, l’accumularsi e l’iterarsi ipnotico dei suoni e dei ritmi riga dopo riga, pagina dopo pagina, brano dopo brano, è il primo approccio a quella polifonia nell’unità a cui tende la poetica di Pessoa. E così, nell’Inno, si definisce in nuce il senso del progetto compositivo: il brano è costituito da sole quattro note (la, sol, re, mi bemolle) che, come personaggi di un dramma, entrano in scena uno dopo l’altro e dialogano tra loro. E ancora, nei brani seguenti si aggiungono nuove note, e così via: solo negli ultimi due appare l’integrale cromatico. C’è dunque una circolarità di microstrutture, fluttuanti nel citoplasma di ogni pezzo, che funge da elemento di raccordo e di osmosi nel tessuto complessivo della Suite; circolarità non facilmente avvertibile all’ascolto, quasi mascherata da un’identità più complessa: un elemento di interlegame che ingloba forma e senso di ogni movimento, ne modifica i caratteri, ne arricchisce punti, linee e superfici proiettandoli nella danza di un’ulteriore totalità spazio-temporale.
Ogni rischio di intellettualismo è evitato grazie a una ricerca di naturalezza dei gesti, di un libero gioco delle forme; anche l’artificio come esibizione di automatismo è rigettato perché segno inequivocabile di assenza di coinvolgimento emotivo, di elaborazione ripetitiva, minimalista, asfittica delle idee musicali ridotte a prodotto di scarto. Non ci stancheremo mai di lottare contro la musica di compostaggio - creata per assecondare il gusto di un pubblico assuefatto dai meccanismi di sterminio di massa delle idee, di standardizzazione e svilimento delle intelligenze, di allevamento delle culture, di banalizzazione dell’arte, di oscena e snobistica lapidazione della musica in luoghi ad essa estranei, di riduzione dell’intelligenza umana a processi di computazione.
Pessoa aveva visto giusto: la sua opera è un’ulteriore lacerante conferma, o anticipazione, che la mente umana non è un insieme di informazioni binarie, ma una forma irriducibile di complessità. Il cervello non è un computer, non possiede un software: come insegnano le più recenti ricerche di neurofisiologia (si vedano gli esperimenti di A. Bandyopadhyay) esso è unicamente un hardware costituito da materia organica capace di svilupparsi autonomamente, senza programmazione esterna, ma seguendo le modalità dei frattali, che si suddividono ramificandosi a vari livelli pur restando uguali a se stessi. E questa autonomia funzionale spiega anche come la maggior parte di ciò che facciamo, pensiamo e percepiamo avviene a nostra insaputa: prima che una qualsiasi informazione giunga alla coscienza accadono numerosissimi meccanismi cognitivi in competizione tra loro di cui non abbiamo coscienza (D. Eagleman). In altre parole, il cervello deve svolgere un’enorme quantità di lavoro prima che una qualsiasi idea divenga contenuto di coscienza, ma dei processi attraverso cui ciò avviene non c’è consapevolezza. Possono passare ore o giorni o addirittura anni prima che un’idea elaborata dai circuiti neuronali divenga cosciente. Il tempo stesso non è che una forma astratta di conoscenza creata dal nostro stesso cervello. Ogni attività mentale è sempre in relazione casuale e inconscia con un’altra, per cui la consapevolezza riguarda solo una minima parte del nostro essere, che rimane indifferente alla sua vera natura, come la natura del mondo, nella sua totalità, è a lui indifferente. Ecco allora - ed è questa la conseguenza fondamentale - che qualsiasi “io” la coscienza si accinga a nominare, in realtà non racchiude affatto la totalità dell’essere che la nomina, l’essenza della persona (questo, come è noto, il significato del vocabolo pessoa nella lingua portoghese) ma solo una sua parte, in quel momento emergente, come la punta dell’iceberg, dall’oceano della complessità: A poco a poco, dall’angoscia di me vado io stesso emergendo…
Fernando Pessoa - alias Alberto Caeiro, alias Àlvaro de Campos, alias Ricardo Reis, alias Bernardo Soares - ha precorso tutto ciò nei tempi della sua esistenza e della sua poesia: egli è colui che, custodito nell’illusione e nell’inquietudine dell’enigma, esule a se stesso nella solitudine di una vita qualunque, costantemente altro da sé, proprio come la musica, tutto quanto propone, oppure esprime quello che non esprime, / tutto quello che dice quel che non dice, / e l’anima sogna, differente e distratta… (Mirco De Stefani)


Titoli ed esecutori

Tirindelli Anna