CD
Canzoni de La grande neige
di Mirco De Stefani
Numero di catalogo discografico CRR2801 2008

Descrizione: Tracce sulla neve
Può accadere che un incontro con la poesia racchiuda ed esprima un senso di mistero che nessuna ricerca giunge a svelare, richiami improvvisamente alla coscienza l’immagine di un entroterra che portiamo da sempre in noi e ci costituisce. E lo svelamento, la scoperta inaspettata di questo paesaggio interiore, è un viaggio nel tempo, un andare incontro al nostro passato nell’atto del suo approssimarsi al presente. E’ il presente che si affaccia sull’abisso senza fondo del nostro trascorso più lontano, avvolto da tenebre impenetrabili, nascosto nelle brume di una lontananza infinita di volti e di figure. Da questa notte buia e inconsistente qualche traccia appare e sembra concretizzarsi in immagini, sensazioni, ricordi sempre meno remoti che si avvicinano a noi, escono dall’ombra e assumono il chiarore della luce. Ma da soli, questi ricordi e questa luce non si danno pienamente, resistono nel nascondimento e nell’attesa che qualcosa li riporti in vita. Qualcosa di eccezionale, di grande, di luminoso e numinoso; qualcosa che coprendo il mondo lo riveli e lo trasfiguri: la grande neve è il tramite fisico e metafisico, il manto leggero che si interpone tra cielo e terra, l’interfaccia tra passato e presente, tra il nostro oggi e la nostra infanzia. Cosa può innescare, allora, nell’immediatezza di un attimo, un incontro con la poesia de La grande neige che dia vita a mondi sonori sconosciuti, che renda percepibili quelle realtà che solo l’arte, come diceva Proust, è in grado di portare alla coscienza? Cosa può riannodare un filo spezzato di cui si sono perse le estremità? Sicuramente un evento casuale, irripetibile, un insieme fortuito di circostanze che turbinano come fiocchi di neve dentro il baule della realtà. E questa combinazione di fatti è ciò che consente di scoperchiare quel baule. Una combinazione che si è data a me un giorno d’inverno, quando la lettura dei versi di Yves Bonnefoy accompagnava la breve nevicata di una mattina, mentre risuonava nella stanza del pianoforte l’Allegro del primo dei Brandeburghesi; un senso di gioia nascente muoveva da quelle note e faceva un tutt’uno con le poesie e il moto dei fiocchi di neve nel chiarore circostante.
E già la musica si fa sentire / nella stanza attigua, illuminata. / Un ardore misterioso ti prende la mano / / Tu vai, col batticuore, nella grande neve: il mondo dell’origine, dell’infanzia, con il trionfo delle grandi nevi dell’autunno inoltrato, riappariva nei colori e nelle immagini dimenticate. Quella poesia e quella musica erano pronte a generare altra musica che intonasse un nuovo canto, unendo finalmente i capi spezzati e perduti del filo del tempo. Ma la musica di quel canto non si dava gratuitamente: nel suo lento costituirsi incontrava, attraverso la poesia e le sue ramificazioni sotterranee, le ragioni stesse della sua esistenza come forma di espressività. Lo scavo nel passato diventava ricerca attorno allo strumento stesso – la musica – che permetteva tale ricognizione: lentamente e del tutto inconsciamente la poesia rivelava la musica a se stessa attraverso le innumerevoli implicazioni che ne mettevano in rapporto le rispettive forme. Nel suo procedere attraverso la poesia, la musica scopriva, nella trama dei versi e nelle suggestioni che ne sottendevano l’essenza, la propria essenza e le proprie motivazioni ad esistere. La musica, per così dire, si specchiava nella poesia e in essa si riconosceva, anche se non ne era affatto consapevole; ritrovava nelle trasparenze della poesia le proprie forme riflesse nelle mille facce di un cristallo in movimento. E’ stato questo progressivo inavvertito autoriconoscimento ad avviare il percorso lungo le quindici stazioni-poesie de La grande neige, diario intimo di un singolo giorno, susseguirsi dei quadri di un paesaggio interiorizzato, mobili e irreali come le sequenze di un film o di un sogno. Si tratta di una considerazione a posteriori, una constatazione “a cose fatte” che lascia il processo compositivo alla sua spontanea “incoscienza” ed “ingenuità”, intatto da ogni intellettualismo e assolutamente al di fuori da ogni programma. Casualità e necessità sono i presupposti irrinunciabili dell’arte. E casualmente, appunto, giunge la neve e scende, tra pause e riprese, dalla mattina fino a sera: l’alba del giorno dopo tutto è finito, il cerchio si è chiuso, la fine si identifica con l’inizio in un moto circolare che unisce i fenomeni naturali alla realtà dell’arte. Un preciso orizzonte temporale racchiude il tempo della musica e lo comprende tra il mattino – prima neve stamattina presto – e il sorgere del nuovo giorno – un istante prima dell’alba: un’unità di tempo, luogo, azione che racchiude in un aristotelico canone di classicità un insieme ordinato di ritmi e movimenti coinvolgenti natura e cultura, poesia e filosofia, sguardo analitico e atteggiamento contemplativo. Uno spazio-tempo che definisce un ambito di lavoro, come la lunetta di un portale, la parete di un affresco, la dimensioni di una tela, le cui misure sono ad un tempo limitazione e offerta di libertà, costrizione e riscatto. Ma cosa fa sì che quei ritmi di parole e versi diventino strumento per la creazione di una musica che in sé li trattenga, li trasformi e li ripresenti nelle proprie armonie e nei propri ritmi? Quale libertà la poesia offre e allo stesso tempo nega alla musica? Quali sonorità sarebbero nate a partire dal primo, immediato e intrigante gioco di grafemi “Yves/nives”? La musica è unità di suono e movimento. Per generare la musica è necessario che queste due forme della fisicità si uniscano in un ritmo, in una danza: il loro incontro può avvenire grazie alla parola poetica che entrambe le racchiude e manifesta. Non sempre ciò avviene, ed è per questo che le poesie in cui tale avvicinamento non accade non si prestano ad essere musicate: mancando in esse i punti d’incontro tra suono e movimento, ben difficilmente la musica trova terreno dove attecchire e crescere. In assenza di queste manifestazioni prime della fisicità non si danno sensazioni che procedano oltre l’intellettualismo del concetto – oggi universalmente diffuso – che nulla ha in comune con l’arte dei suoni. E’ dunque la presenza di particolari “parole chiave” all’interno di ogni poesia a far sì che attorno ad esse, come attorno ai nuclei di cristallizzazione della neve (che si formano solo in determinate circostanze meteorologiche), cresca, quasi agostiniana extensio animi, nei suoi tempi e nelle sue durate, il tessuto musicale e rivesta la poesia di nuovi suoni e nuovi silenzi. I verbi di moto sono i primi indizi, le luci albali che la musica segue nel suo aprirsi alla coscienza. Un solo esempio per tutti, tratto dalla poesia d’esordio: i verbi “rifugiarsi”, “cadere”, “immobilizzarsi”, “scrivere”. Ad essi si aggiungono i nomi dei soggetti che racchiudono in sé l’idea di moto: “neve”, “flagello”, “luce”, “vento”, gli “aghi dei pini” che cadono anch’essi talvolta più fitti della neve. Ai movimenti e alle cose si uniscono le tonalità realizzanti l’atmosfera della poesia: i tempi della giornata, nella loro cadenza vaga e rarefatta (“stamattina presto”, “verso mezzogiorno”, “verso sera”) e i colori fisici e metafisici (“l’ocra”, “il verde”, “le ombre”, “i sogni”). La musica, metafora della realtà, mondo parallelo al mondo reale e ad esso immanente, vive di tentativi di identificazione con le forme della realtà; forme che diventano a loro volta metafora della musica, così che realtà e finzione si confondono nelle metamorfosi dell’arte. La parola poetica è veicolo di tale finzione, volto e maschera del mondo fenomenico, voce alla prua del mondo. Cosa rappresenta, allora, per il musicista, la neige di Bonnefoy? E’ certo un fenomeno fisico, atmosferico, protagonista di un evento reale, vissuto in prima persona dal soggetto; ma è ben altro. E’ la descrizione del cristallizzarsi limpido e luminoso, preciso ed evanescente, fluttuante e immobile, del pensiero poetante. Un pensiero che evoca e ricorda, chiama per nome la realtà, la medita e la ordina lungo i ritmi del verso. Un pensiero che richiama in vita la vita trascorsa del soggetto di cui è portavoce. E questa vita si è sciolta come la neve o si è, come la neve, ghiacciata in lastre spesse e impenetrabili o ancora continua a turbinare nel vento. E’ vita che è ed a un tempo non è; esattamente come la parola, come la musica, vive per un istante e subito trapassa nel nulla o nella memoria. Ecco: è questa instabile unità di parola e suono – racchiusi per brevi istanti nei cristalli di neve, fluttuanti e in collisione reciproca come gli atomi di Lucrezio – la chiave di lettura e di ascolto delle Canzoni de La grande neige. Ed è ancora il Lucrezio di Bonnefoy, in De natura rerum, a ricordarci l’ineffabile corrispondenza tra le lettere dell’alfabeto – e con esse le note musicali – e gli atomi della materia nelle loro continue e infinite combinazioni e incerti legami. Parole e linguaggio, suoni e melodie, fiocchi di neve, atomi e molecole: corpi partecipi di un assoluto e di un amore che li accomuna per sempre e inesorabilmente. Caducità ed eternità, passato e presente, movimento e immobilità concorrono in queste composizioni a dare veste di suono alla poesia e alle sue visioni: dopo l’esperienza del Concert pour Douve – in cui la poesia di Yves Bonnefoy era presente ma occultata in forma ipogrammatica, sospesa tra il visibile e l’invisibile nelle composizioni per pianoforte a lui dedicate – ora quella poesia si libera, emerge e prende voce e corpo da un canto intonato dal soprano, che con il pianoforte dialoga e tesse le trame musicali, dilatando e stringendo a sé il tempo della poesia. La luminosa poesia di quel giorno di neve, nata tra i silenzi e i brusii di Hopkins Forest, nel lontano Vermont – per Bonnefoy “l’altra riva, l’altra luce” – squarcia le tenebre della memoria e rischiara la via di accesso al mondo dei suoni; che è, assieme al mondo delle parole – al linguaggio – l’orizzonte della nostra esistenza quotidiana, la quale, come neve, turbina, s’infittisce, si strappa. Delle opere e dei giorni resterà, di fronte all’eterno, la traccia di una danza impressa sulla neve: parole e suoni a testimonianza di un fugace, ma vero, passaggio, infime impronte davanti alla porta. Mirco De Stefani

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